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Mazzini e Marx, l'attualità dell'uno ed il tramonto dell'altro

(alcune considerazioni sul socialismo mazziniano, collettivizzazione dei beni di produzione e liberismo economico)

ASSOCIAZIONE MAZZINIANA ITALIANA - BRESCIA

PRESENTAZIONE
Riproporre nella loro stesura originale articoli pubblicati quasi cinquanta anni fa, può sembrare opera anastatica e storicizzata, se non fosse che gli argomenti trattati e le prospettive poste sono ancora oggi attuali ed in grado di aprire un dibattito ed un confronto a nostro parere interessante e vivace. L’interpretazione marxista della storia come processo materiale ed economico che si sviluppa attraverso la lotta di classe, sembrerebbe definitivamente sepolto con la caduta nel novembre 1989 del muro di Berlino, per molti questa data è posta come indice del fallimento e della fine dei postulati espressi da Carlo Marx nella stia opera “Il Capitale” e dovrebbe quindi presupporre un abbandono della loro validità.
Senonché oggi la nostra società è più impregnata di quei concetti più di quanto non si voglia credere, le scelte politiche sono condizionate a tutto campo da ragioni materiali e di compatibilità economica, il paradosso è che ad adottare tali postulati sono in primis le classi dirigenti imprenditoriali neoliberiste che adottano il denaro, l’economia e la convenienza economica come metro di misura per ogni scelta, dando in una certa misura ragione al deprecato comunista Carlo Marx che le aveva poste come centro motore di ogni agire umano.
In questo contesto pare opportuno per i mazziniani riprendere le ragioni del rifiuto della interpretazione materialista della storia che opposero Mazzini a Carlo Marx e riesaminare tematiche, proposte e prospettive confidando comunque di riuscire a suscitare nei lettori qualche riflessione.
G. Carlo Colosio (Segretario AMI. Brescia)
Brescia 15 marzo 2001

MAZZINI E MARX

L’attualità dell’uno e il tramonto dell’altro
Giuseppe MazziniMazzini e Marx: due vite parallele ma diverse.marx 2
Sono stati testimoni e protagonisti del loro tempo. Si sono allontanati definitivamente alla Convenzione della prima Internazionale, a Londra, per incompatibilità su valori e ideali di fondo.
Pur partendo da premesse vicine (il riscatto sociale), che hanno avvicinato gli aderenti ai loro movimenti più di quanto si possa oggi credere, le differenze del loro pensiero erano nitide, e tali sono rimaste.
Per l'Italia basterà ricordare le comuni lotte contro la tassa sul macinato e i processi tipo “le boie”, dove troviamo assieme militanti dei due partiti.
Le differenze di fondo
Marx basava i suoi programmi e la realizzazione sulla lotta di classe; Mazzini ha sempre lavorato per l’associazione dei lavoratori per arrivare alla ripartizione del reddito (equità proporzionata fra capitale denaro e capitale lavoro) nel sistema democratico.
“Capitale lavoro nelle stesse mani” voleva dire, e vuoI dire, una ripartizione “proporzionata” del prodotto del lavoro fra “Capitale denaro e Capitale lavoro”, dove perfino il termine attuale “politica dei redditi” è insufficiente a rappresentarne il concetto perché è formula vuota se non supportata da adeguata legislazione.
Seguaci di Carlo Marx furono paesi a conduzione comunista centralistica, col tempo passati alla dittatura della gerarchia (la famosa nomenclatura) piuttosto che a quella del proletariato; La collettivizzazione dei beni (e quindi del lavoro anche salariato) è sicuramente strumento da non disprezzare per Società dove impera la miseria dei tanti a pro fitto di pochi ricchi, che controllano potere politico ed economico.
In quei casi è auspicabile perfino la rivoluzione per sovvertire lo stato di ingiusti zia endemica. Quando però le Società riescono a darsi strumenti democratici e Costituzioni che salvaguardano i principi fondamentali di tutti i Cittadini, il marxismo denuncia i suoi limiti. Purtroppo, a quel punto  >quasi sempre la struttura burocratica, che si è consolidata come centro di potere, non è capace di accettare l’evoluzione democratica dello Stato.
A quel punto il ritardo per i! conseguimento di migliori traguardi nelle questioni politiche, economiche e sociali si palesa evidente, superato, dando fiato alla reazione.
Da qui, nel confronto fra Mazzini e Marx, l’attualità del primo e il tramonto del l’altro.
Possono riferirsi a Giuseppe Mazzini i sistemi che hanno avuto governi definibili, per semplificazione, di “socialismo democratico”, “laburisti” e “fabiani” nell'accezione più progressista, con la pratica della democrazia parlamentare, con un tocco tipicamente mazziniano che vedeva il Popolo così sovrano, da riconoscersi il diritto di interdire i rappresentanti eletti in caso di tradimento del mandato.
Altri elementi, non meno importanti, distinguono le posizioni ideologiche: Mazzini vedeva la nazionalità come connotato culturale per arrivare poi alla costituzione di una Stato di nazioni, combattendo il nazionalismo vedendo in questo, per analogia, lo stesso egoismo dell’individualismo.
L’idea delle “Giovine Europa”, già allora, è stata l’autentica esperienza precorritore dell’attuale Europa Unita, in attesa di una compiuta unità politica, qualcosa di più della Comunità Economica. Per Marx questi non erano valori importanti, per lui erano forse distoglienti dallo scopo principale della sua dottrina.
Le idee del primo avevano respiro universale; per questo sono ancora elementi ai quali si ispirano tante Costituzioni di paesi a sistema democratico, professando con questo la necessità di far convivere, col sistema politico, quello economico, in funzione del sociale.
Quelle del secondo, legate al contingente (senza disconoscere che, maggiormente per quei tempi facevano comunque riferimento a popoli e lavoratori oppressi nei diritti elementari) erano destinate ad esaurirsi appena soddisfatto il bisogno della classe o quando l’appropriazione della rappresentanza politica della classe non era più determinata dalla rappresentanza degli interessi della stessa.
Solidarismo mazziniano
Nelle idee di Mazzini c’era qualcosa di più di una gestione democratica del proprio paese: non poteva mancare la tensione alla fratellanza e quindi al solidarismo, capace di coinvolgere tutta la comunità per battere l’egoismo individuale o di classe, volendo soddisfare le necessità e i bisogni collettivi in un quadro di diritti/doveri.
Con Marx, sempre ricordando, a suo merito, la premessa dello scopo del riscatto sociale dei lavoratori, queste caratteristiche non potevano durare a lungo perché la ricerca del risultato finale solo all’interno della lotta di classe, faceva mancare alla sua azione il conseguimento del sistema democratico.
E’ doloroso, ma va preso atto che la storia ha testimoniato che la conduzione oligarchica degli Stati in cui il marxismo ha potuto svilupparsi non sempre ha realizzato il riscatto dei lavoratori.
Se la teoria di Marx è al tramonto è comunque utopia affermare che quella di Mazzini è attuata. Se il marxismo viene rifiutato dal progresso democratico, il mazzinianesimo non può trovare nel terreno del liberismo e nella globalizzazione, vista solo in termini economici, gli strumenti attuativi.
Si può dire che ambedue hanno dato inizio a processi nuovi con un ruolo storico positivo, di rivolgimento dell’antiquato sistema dei privilegi esistenti per pochi a scapito del popolo ma, mentre per Mazzini possiamo rivendicare oggi la sua attualità in senso lato, per Marx va registrato il suo declino almeno come possibilità di gestione di governo, senza escludere l’accusa che la sua rovinosa caduta in paesi come la Russia abbia dato fiato ad una reazione opposta, con la presenza di un liberismo esasperato di ritorno e a governi di destra.
Gli stessi articoli di Oliviero Zuccarini e di Luigi Salvatorelli, pubblicati il 2 giugno del 1949 in occasione dell’inaugurazione del monumento nazionale a Mazzini in Roma, dopo 50 anni sembrano scritti oggi, a testimoniare che il pensiero di Giuseppe Mazzini non perde di freschezza politica, salvo la necessità di adeguare le norme attuative della legislazione se i Popoli e gli Stati scelgono la via della democrazia.
L’articolo di Lombardi, messo in chiusura, cerca di attualizzare i testi precedenti con una analisi personale, frutto di una testimonianza continua da “vecchio” mazziniano che ha sempre detto e scritto ciò che pensava, senza badare se “l’eresia” espressa poteva precludergli le stanze del potere.
Alfonso Rodella

MARX E MAZZINI

Relazioni personali fra i due non ce ne furono mai: non credo anzi, si siano mai incontrati. Ove si pensi che per lunghi anni essi dimorarono contemporaneamente a Londra, e che per ambedue, nella seconda metà della loro vita, l’Inghilterra fu la seconda patria; se si riflette che ambedue furono agitatori rivoluzionari europei, questa totale assenza di rapporti personali è significativa. Più significativa ancora del giudizio pacato, ma severo, pronunciato da Mazzini su Marx: “uomo d’ingegno acuto, ma dissolvente: di tempra dominatrice, geloso dell'altrui influenza, senza forti credenze filosofiche o religiose e, temo, con più elemento d’ira, s'anche giusta, che non d’amore nel core”; e dei termini violenti, fino alla volgarità, in cui Marx a sua volta si espresse sul conto di Mazzini. Vi fu tra i due una incompatibilità di spirito totale.
Ciò è stato riconosciuto da un pezzo, e non vale la pena di insistervi. Ma anche il confronto fra i loro programmi, le loro ideologie, i loro metodi politici, è stato fatto ripetutamente: ricorderemo l’ottimo capitolo dedicato, più di trent’anni fu, da Alessandro Levi nella sua Filosofia politica di G. M., alla posizione di lui nei rispetti del socialismo in genere, del marxismo in specie. La conclusione del Levi in sostanza è questa: Mazzini può dirsi socialista, ma di un socialismo radicalmente differente da quello marxista, e quindi da tutto il socialismo contemporaneo, che dal marxismo deriva. E, al tempo in cui il Levi scriveva, non soltanto ciò ch’egli diceva era esatto (lo è anche adesso); ma conteneva “in nuce” tutto quello che importava dire sull’argomento.
Oggi, al lume di una più lunga, esperienza storica, è possibile, fare qualche passo ulteriore, partendo dalle conclusioni stesse del Levi. Possiamo, cioè, comprendere meglio l’intreccio e la lotta fra mazzinianesimo e marxismo, e valutare con qualche diversità il valore attuale e le chances rispettive dei due sistemi.
Se per socialismo s’intende la concezione, la fede, per cui unico ordinamento sociale legittimo è quello fondato sul lavoro, unico fondamento legittimo di proprietà è il lavoro, praticato nell’interesse non solo individuale, ma sociale; se si riassume la morale dell’economia sociale nel detto di S. Paolo: “chi non vuoi lavora re, non mangi”; se il programma socialista fondamentale è la riunione di capitale e lavoro nelle stesse mani allora, bisogna dire che Mazzini è stato nettamente, coscientemente socialista, e che il socialismo fa parte integrante del suo credo, fino dal periodo anteriore al Quarantotto; potremmo, anzi, aggiungere: specialmente nel periodo anteriore al Quarantotto.
Già lo statuto della Giovine Europa affermava che “l’Eguaglianza esige... che ogni uomo partecipi, in ragione del suo lavoro, al godimento dei prodotti, risultato di tutte le forze sociali poste in attività”. Ma specialmente nel primo periodo di dimora inglese le affermazioni sociali, e diciamo pure socialiste, di Mazzini, si fanno precise nella sostanza, incalzanti nella forma: al cospetto delle condizioni sociali inglesi, specialmente degli operai, egli proclama che “la società è non solamente una cosa senza senso, ma un’infamia”; e afferma addirittura: “non sono uomo d'opinioni o passioni politiche. Guardo all’Idea,. all’idea sociale... Sento un dispetto per tutte, le questioni puramente politi- che” Accenti questi che sono ancora più significativi (per chi conosca la psicologia mazziniana) di un programma socia lista particolareggiato, in articoli e paragrafi. Come significativo è il fatto, ignorato dai più, che a Londra egli sostenne (ed attuò) il principio dell’organizzazione operaia, a parte, in seno all’organizzazione generale della Giovane Italia, con la motivazione espressa dei contrasto di classe fra capitalisti e operai: e a questo principio, a questo metodo tenne fermo anche contro le obbiezioni degli operai italiani di Parigi, ai quali una simile organizzazione a parte sembrava un trattamento d’inferiorità. Non riuscì tuttavia, in forza appunto della loro opposizione, a impiantare a Parigi una sezione dell’Unione operaia di Londra.
Detto tutto questo, bisogna anche riconoscere che ne la socializzazione integrale e forzata delle proprietà apparteneva al programma mazziniano, ne la lotta sistematica di classe al suo metodo. La mira, per lui, non era la soppressione o divisione o collettivizzazione del capitale, ma l’unione di capitale e lavoro nelle stesse mani. Mezzo per arrivarvi, le associazioni di lavoro libere e volontarie (cooperative di produzione), assicuranti ai lavoratori stessi il frutto integrale del proprio lavoro: Ai capitali necessari per il loro impianto e mantenimento avrebbe dovuto contribuire direttamente in prima linea lo Stato, con la creazione di banche di credito operaio, e la costituzione dì un fondo nazionale formato dalle terre incolte e dai beni ecclesiastici e demaniali. Avrebbero poi dovuto agevolare le associazioni e migliorare le condizioni operaie la concessione di lavori da parte dello Stato alle associazioni medesime; una radicale riforma tributaria, sopprimente i tributi indiretti e costituente un unico tributo sul reddito, con esenzione completa del minimo necessario alla vita; la semplificazione delle forme giudiziarie; lo sviluppo dell’istruzione obbligatoria per tutti e provveduta dallo Stato.
A differenza del programma politico di Mazzini, che aveva carattere ideale, sintetico, rivoluzionario, il suo programma sociale era di riforme particolari e graduali.
Certamente, la prima spiegazione di ciò prima, almeno, sul piano psicologico va ricercata nel primeggiante interesse nazionale, nella traboccante passione per la risurrezione unitaria italiana. E quando sentiamo Mazzini (v. sopra) affermare la sua indifferenza per le questioni politiche, di fronte alle sociali, possiamo anche esser tentati di sorridere visto che supremamente politici erano il suo, programma e la sua azione per l’unità italiana. Ma il sorriso, appena abbozzato, vien meno, se si pensa che la questione nazionale per lui aveva, al fondo, carattere morale e religioso: e che nell’unità morale e religiosa possiamo ben dire, nell’unificazione mistica del popolo si risolveva nel suo spirito anche la questione sociale.
Sotto questo aspetto, il socialismo di Mazzini si distingue da quello di tutti i suoi contemporanei, salvo al più La Mennais. Se ne distingue; ma non possiamo dire propriamente che fino alla comparsa di Marx vi si contrapponga, in vera e propria antitesi. L’ispirazione morale, l’affiato religioso non sono estranei agli altri agitatori politico sociali per periodo prequarantottesco e quarantottesco: si possono dire, anzi, una caratteristica loro comune, sebbene in nessun altro raggiungano l’in tensità, la fondamentalità di Mazzini.
Mazzini, come gli altri socialisti prermarxisti, è gradualista, umanitario, idealistico. La fraternità delle classi e non la lotta di classe è il loro ideale supremo: la società nazionale superante la divisione di classi, l’obbiettivo comune. Mazzini, insomma, va compreso — per chi vuoi confrontarlo con Marx su una base di fatto, entro un inquadramento storico in quel socialismo “utopistico” contro cui scese in campo proprio alla vigilia della rivoluzione quarantottesca il Manifesto dei comunisti.
A chi dette ragione la rivoluzione del Quarantotto? Bisogna distinguere la prima dalla seconda fase. Nella prima fase il socialismo mazziniano parve vittorioso, ove si guardi non tanto all’Italia In cui prevalse su tutto la lotta nazionale quanto alla Francia. La seconda repubblica francese si presentò con una faccia “sociale”: il principio dell’intervento statale nell’economia, per l’elevazione del proletariato, e del diritto al lavoro furono proclamati ed ebbero un principio di attuazione. Reciprocamente, le classi lavoratrici si interessarono al programma democratico “borghese” come a cosa loro. E di questa associazione fra borghesia nazionale progressiva e proletariato fu proprio Carlo Marx uno dei più ardenti sostenitori, nel suo organo giornalistico, la Neue Rheinische Zeitung, anche se per lui essa rappresentava un momento transi tono.
La seconda fase capovolse le posizioni, annullando i risultati della prima. Dopo le giornate parigine del giugno ‘48 la reazione sociale in Francia fu completa, trascinandosi dietro, in larga misura, anche quella politica. Il socialismo fu un termine di maledizione; il proletariato, un oggetto di odio e di spavento. Qualsiasi idea di politica sociale fu bandita. Trionfò, quasi sghignazzando, l’egoismo tradizionalista borghese di Thiers, l’uomo per cui la proprietà doveva rimanere in perpetuo il “jus utendi et abutendi”, e l’autorità statale esistere innanzi tutto per l’assicurazione di quella.
In tale reazione il socialismo prequarantottesco, idealistico, umanitario, graduali 8
sta, il socialismo mazziniano, insomma, andò travolto. A Roma Mazzini triumviro gli rimase fedele e ne avviò l’applicazione; ma la caduta della repubblica romana troncò il tentativo in sul nascere. Per quasi venti anni non si senti più parlare, in Europa, di socialismo. Mazzini stesso, pur mantenendo fede alle sue idee, pure impiantando e sviluppando la sua azione in seno alle associazioni operaie italiane, non ritrovò più gli spiccati, accenti sociali quarantottesco. Più che mai straripante fu in lui la passione nazionale.
Alla riscossa proletaria, iniziata con la fondazione della Prima Internazionale a Londra nel 1864. il mazzinianesimo non fu estraneo. Nello statuto della nuova organizzazione, redatto da Carlo Marx, questi si adattò a introdurre un paio di frasi di sapore mazziniano: ma col deliberato intento di affogarne lo spirito in quello, marxistico. E ci riuscì: Influenza di Mazzini nella Internazionale fu nulla, ed egli se ne staccò, entrando infine, negli ultimi anni di vita, in aperto conflitto con essa. In Italia veramente la lotta si svolse non tanto fra Mazzini e Marx, quanto fra Mazzini e Bakunin; ma questo non cambiò sostanzialmente la situazione, che fu quella di un conflitto aperto, a fondo, tra socialismo mazziniano, idealistico e solidaristico. e socialismo rivoluzionario, classistico comunistico. E quando l'internazionalismo bakuniniano in Italia (e fuori) venne meno di fronte alla vittoriosa socialdemocrazia marxistica, ciò significò non una riviviscenza di socialismo mazziniano, ma anzi la sua sconfitta definitiva. Logicamente: poiché, fra Marx e Mazzini l’incompatibilità era ancora maggiore, molto maggiore, che fra Mazzini e Bakunin.
La sconfitta di Mazzini travalicante i limiti della sua vita empirica non va considerata isolatamente, ma inquadrata in quella più generale del vecchio socialismo idealistico per parte del nuovo, “scientifico”. Tuttavia, con sue caratteristiche particolari. Accanto al “mito” nazionale dell’Unità repubblicana, mancò nel pensiero e nella propaganda di Mazzini un corrispondente “mito” sociale. Colui che aveva visto in tutta la sua portata il movimento delle nazionalità, e aveva saputo collocarvisi dentro, nel punto centrale, non valutò con altrettanta esattezza il movimento di classe del proletariato, e lo guardò sempre piuttosto dal di fuori. Tutto intento alla Santa Alleanza dei popoli, gli sfuggì la formazione dell’Internazionale proletaria. Quando l’ebbe innanzi, non riuscì a fronteggiarla e a dominarla. Anche un genio non può vedere e far tutto; e il movimento proletario crebbe e si avviò a divenire protagonista quando da lungo tempo Mazzini aveva concluso il suo svolgi mento spirituale.
La storia, però, non finisce qui. La fase marxista è stata anch’essa transitoria. Dopo un mezzo secolo, la socialdemocrazia marxista si è sdoppiata, in laburismo e leninismo. Il laburismo ha sconfessato Marx. a parole e più ancora in fatto il leninismo lo ha messo nel tabernacolo, ma l’ha interpretato a modo suo. sostituendo alla dittatura del proletariato quella di una ristretta oligarchia rivoluzionaria, trasforma tasi in assolutistici burocrazia statale.
Lasciamo da parte il leninismo, che in Occidente non ha trionfato ne trionferà (salvo, tuttalpiù, il caso di una terza guerra mondiale terminante in una catastrofe europea). Il socialismo ancora vivo nell’Europa occidentale è il laburista ma esso mostra per chiari segni la sua incompiutezza. Con empirismo a lungo andare insostenibile, esso vorrebbe accoppiare democrazia e classismo, in un parlamentarismo riformistico che finisce per associare il privilegio di oligarchie sindacali alla consacrazione di un nazionalismo autoritario. Alla prova dei fatti esso risulta inadeguato alle esigenze interne non meno che a quelle internazionali: e non è un caso che l’attuale infelice periodo di politica estera inglese coincida con un governo laburista.
Il punto fondamentale è che il socialismo oggi va inquadrato nella democrazia, e non viceversa; che democrazia significa equilibrio e accordo di classi lavoratrici e produttive diverse “multae sunt mansiones in domo Patris mei” e non dittatura o privilegio, di una sola; che pertanto il socialismo non può essere ormai se non un metodo per la vita economica e morale della nazione entro un ordinamento internazionale.
Questi sono i principi stessi e gli ideali del socialismo mazziniano e del mazzinianesimo: formulati nei termini richiesti dalle nuove esigenze, adattati e sviluppati secondo le nuove realtà. Se nell’ultimo terzo del secolo decimonono Marx aveva sconfitto Mazzini, nella seconda metà del ventesimo Mazzini supera definitiva mente Marx.
Luigi Salvatorelli, storico e giornalista italiano (Marsciano, Perugia, 1886 Roma 1974). Laureatosi a Roma, esordì con studi di storia del cristianesimo Lo Stato e la vita sociale nella coscienza religiosa di Israele e del cristianesimo antico (1913), entrando in contatto con l’ambiente del modernismo cattolico.Professore di storia della Chiesa all’università di Napoli (1916.), lasciò l’insegnamento per assumere la direzione politica della Stampa di Torino (1921-1925), dove condusse una campagna intransigente contro il fascismo, con articoli raccolti in parte nei volumi Nazionalfascismo (1923) edito da P. Gobetti e Irrealtà nazionalista (1925) in cui il fascismo è interpretato come un movimento, reazionario e sovvertitore a un tempo, di ceti piccolo-borghesi incapaci di inserirsi nel processo di sviluppo della civiltà democratica e industriale moderna. Dedicatosi interamente agli studi storici dopo l’avvento del fascismo, pubblicò una serie numerosa di saggi e monografie.Nel 1942 fa tra i fondatori del partito d’azione, e dopo la Liberazione fece parte della Consulta nazionale; nel 19441946 diresse il settimanale politico-culturale “La Nuova Europa”. Presidente nazionale dell'A.M.I. (Associazione Mazziniana Italiana Editorialista politico della Stampa dal 1949 al 1965, proseguì negli studi storici, pubblicando varie opere fra cui: Pensiero e azione del Risorgimento (1943), La rivoluzione europea 1848-1849 (1948), Storia del fascismo, in collaborazione con G. Mira (1952), Chiesa e Stato dalla Rivoluzione francese ad oggi (19555, Storia d'Italia nel periodo fascista (1956; ed. rinnovata 1964,), Storia del Novecento (1957), Spiriti e figure del Risorgimento (1961), Miti e storia (1964). Postumo è Stato pubblicato Nazionalfascismo, con prefazione di Giorgio Amendola (1977).
MAZZINI DI FRONTE ALL’ECONOMIA E AL PROBLEMA SOCIALE
Collocare Mazzini tra gli economisti non è certo possibile. E’ invece interessante vedere quale fosse la sua posizione di fronte alla economia, agli economisti e ai problemi sociali del suo tempo. Credo che ne risulti un Mazzini più vivo e attuale di quello che ci è stato sin qui presentato. Non perché siano mancati studi sulle sue idee sociali. Anzi se ne è scritto molto con spirito di comprensione e alle volte addirittura di esaltazione. Che egli non fosse affatto indifferente alla questione sociale è stato largamente riconosciuto. Scrittori autorevoli di parte socialista gli hanno perfino accordato un posto tra i precursori della loro idea. Tutti però si sono lasciati guidare dalla preoccupazione, alle volte esclusiva, di stabilire le relazioni, le derivazioni, le affinità del suo pensiero con le varie scuo- le di socialismo, da quel le degli utopisti a quella mandsta, considerata come scientifica. E in tal modo non sono riusciti a metterlo in giusta luce. E’ avvenuto cioè che si desse maggiore risal to, e quindi maggior peso, a quanto a quelle scuole poteva avvicinarlo che a ciò che da esse lo allontana- va e lo differenziava. O dove si vollero rilevare i dissensi si fini col presentare un Mazzini esitante, moderato nelle soluzioni e perfino un po’ conservatore. Altra profonda defomiazione di Mazzini che non si sarebbe verifica ta ove al socialismo nella sua più comune e conosciuta interpretazione non si fosse assegnata senz’altro la posizione più radicale e avanzata. Ad una migliore valuta zione servirebbe assai più stabilire dove e in che consistessero le differenze. E potrebbe accadere di trova- re sulla questione economico - sociale la posizione assunta da Mazzini più in avanti che indietro, diversa ad ogni modo, e corrispon dente ad una visione meno unilaterale di tutto il problema verso una soluzione più ampia, più armonica e più umana.
Non è qui il caso appunto per le ragioni dette sopra, di un esame di tutto ciò che si è scritto sulle idee sociali ed economiche di Mazzini. Essendosene scritto molto e da molti, un lavoro del genere,
fatto con intenti critici, sarebbe troppo lungo e non so se e quanto potrebbe riuscire conclusivo. Cer- cherò quindi di limitarmi a  >indicare del suo pensiero economico e sociale, e colle sue stesse parole, alcuni trat ti caratteristici. 11 primo è che Mazzini sente vivissima la esigenza la imminenza di una grande rivo luzione sociale. Il problema è per lui il problema dell’epoca: un aspetto, ma il più vivo e preoccupante dell’altro in corso, della, libertà politica. E’ una affermazione a cui ricorse spessissimo durante la sua predica- zione e che è al centro delle sue, preoccupazioni. Vede l’irrefrenabile potenza del moto operaio. Ne prevede gli ine vitabili sviluppi, E ne paventa i pericoli quando una idea, un principio, non lo ispi ri e diriga.
La rivoluzione non può essere esclusivamente politica; o sarà anche sociale e riu scirà ad una tra- sformazione profonda nei rapporti economici della società, o non sarà. Sarà sommossa, rivolta, in- surrezione. Rivoluzione no.
“Se non ti trattasse — dichiara - in una Rivoluzione di un ordinamento generale in virtù di un prin- cipio sociale, di una dissonanza da cancellarsi, negli elementi dello Stato, di un’armonia da ristabi- lirsi, di una unità morale da conquistarsi, noi, !ungi dal dichiararci rivoluzionari, crederemmo debito nostro di opporci con ogni sforzo al moto rivoluzionario (1836)”. Esiste per lui una esigenza, di riordinamento politi co in quanto ne esiste una di riorganizzazione sociale. Le rivoluzioni non de- vono più “Consumarsi in questioni di forme meramente politiche a beneficio di una sola classe”. Non quindi rivoluzione a carattere esclusivamente politico: ma politico e sociale ad un tempo. La sua democrazia, il suo Stato, la sua Repubblica è la libertà realizzata nella giustizia sociale, in co- munità e in eguaglianza di diritti e di doveri. Chiama gli operai alla riscossa, e li vuole alla testa del movimento rivoluzionario. “Avete combattuto - dice ad essi - per le altre classi, date ora il vostro programma” e non combattete se non per quello. Nessun dubbio e nessuna titubanza in lui in tale impostazione: dagli inizi alla fine del suo apostolato. Gli ultimi anni della sua vita lo vedono fervi- damente e quasi esclusivamente occupato verso gli operai cer cando al loro moto una iniziativa in Italia.
E’ in relazione alla profonda trasformazione che nei rapporti economici e sociali determinerà la fa- tale ascesa del moto operaio, che può stabilirsi quale, sia la posi zione di Mazzini di fronte all’economia, come dottrina, e agli economisti del suo tempo. Si è posto in dubbio che egli abbia conosciuto e approfondito le opere degli economisti maggiori. Approfondito forse no, salvo forse che per l’opera fon damentale di A. Smith; conosciuto sufficientemente certo sì. E’ possibile stabi- lirlo attraverso i suoi scritti, anche se in materia di economia si presentino in modo frammentario. Tale frammentarietà si riscontra, del resta, anche per il suo pensiero etico - politico. E non è da far meraviglia se egli vede l’economia in funzione ispi ratrice e direttiva, dal momento, che l’economia era allora riguardata e trattata come politica economica: non si era arrivati alla separazione netta tra scienza pura ed economia applicata che è avvenuta invece molto più tardi. L’economista allora, se anche pretendeva di voler rimanere estraneo alla politica per considerare il feno meno economico in se stesso, finiva poi sempre col fare politica, contribuendo molto spesso a invalidare o a convalidare quanto intanto esisteva o aweniva.
Mazzini non concepisce invece l’economia come scienza pura, che fosse fine a se stessa. Lo studio economico, lo sviluppo delle dottrine economiche dovrebbe, secondo lui, intendersi e volgersi in funzione dell’avvenire. “L’economia- egli lamenta, - proprio per stabilire che la intende diversa- mente - non è nella sua essen za se non una esposizione scientifica del fatto esistente, senza valore al futuro (1849)”. E parlando degli economisti, già nel ‘36, li definisce così: “secte impuis sante dont toute la science se réduit à proclamer qu’elle n’a rièn à faire si ce n’est de laisser faire”.
E’ appunto tale posizione d’indifferenza di fronte alla realtà economica esistente che a Mazzini rie- sce incomprensibile e inammissibile. Che quando invece gli eco nomisti mettono la loro scienza o il loro consiglio a servizio di una politica eco nomica attiva in senso liberale e per modificare una si- tuazione, non esita a rico noscere, per esempio, che “la scuola pacifica di Manchester, la scuola di
Cobden e di Brist ebbe, per servizi importanti resi al paese nella questione economica, influenza predominante (1867). E’ in questo senso infatti che egli vuol vedere la scienza economica. “Una ri- forma sociale è viziata nei suoi principi - scrive nel ‘32
• se non comprende e rappresenta i bisogni di tutte le classi”. E’ ciò non può che essere compito del- la scienza economica! “Non so — dirà più tardi, nel ‘38 - se i nostri giorni vedranno sorgere una nuova scienza economica che insegni a distrug gere o a scemare almeno con una più giusta distribu- zione della ricchezza, le sor genti della miseria”. E, nel ‘71 “senza una determinata dottrina econo- mica che la renda capace di agire... non esiste politica”. Non mi sembra che Possano cadere dubbi sul suo modo di concepire la economia, e cioè non come - sono sue paro le del ‘49 - “fredda, arida e imperfetta” indagine scientifica, ma come dottrina volta ad apportare un contributo di esperienze e di soluzioni nella preparazione dell’av venire.
Per quanto le sue attitudini mentali male potessero adattarsi alle esigenze degli accertamenti minuti e delle pazienti investigazioni, egli ne seppe valutare l’impor tanza e non vi rifuggì quando gli sem- brò che potessero contribuire ad un’opera di critica e di preparazione costruttiva, o alla sua battaglia politica. Lo dimostrano gli studi che nel ‘44 pubblicò in inglese e su giornali inglesi intorno alle condizioni economiche, amministrative e finanziarie degli Stati pontifici e quelli, pubblicati, nel ‘45 riguardanti il Lombardo - Veneto. Non è quindi a pensare che non desse peso e valore alle ricerche e agli accertamenti fatti con metodi scientifici. Valutava tanto l’importanza di certe indagini che perfino nella sua scuola di Londra - che in fondo era solo una scuola elementare e gratuita - stabili- sce che s’ii “la geo grafia connessa con la statistica”. Ne è a dire che gli mancasse il senso della realtà e delle cose possibili. Quando si trattò per lui di trasformarsi in uomo di governo
• sia pure per un periodo di pochi mesi e in circostanze e di fronte a necessità ecce zionali come quelle in cui si svolse la breve e luminosa vita della Repubblica Romana - addimostrò eccezionali qualità d’intuito e di prontezza nel concretare nella legislazione provvedimenti conformi al suo mo- do d’intendere la politica eco nomica. Il manifesto - programma della Repubblica è mirabile di pre- cisione e di  >saviezza per un governo che voleva essere degno della istituzione repubblicana. E’ difficile trovarne un altro altrettanto preciso e sintetico, segno d’idee chiare in chi si accinge a governare: “economia negli impieghi; moralità nella scelta degli impie gati; capacità accertata dovunque si può”; “ordine e severità di verificazione e cen sura”; “tendenza continua al miglioramento materiale del paese”; “poche e caute leggi; ma vigilanza decisa nell’esecuzione”. Uno dei primi provvedimenti, il primo anzi, è quello relativo alle abitazioni sottoposte ai, danni, di abitazioni troppo ristrette e insalubri, e s’inizia con la considerazione che “dovere e tutela di una bene ordinata repubblica è il provvedere al progressivo miglioramento, delle classi più disagiate”. Ed è in adempimento dei fini e dei doveri sociali della repubblica che seguono subito dopo gli altri decreti, come quello per la distribuzione di terre ai contadini (immediato inizio di quella riforma agraria di cui stiamo discorrendo da anni) e quelli riguardanti l’alimentazione del popolo coll’abolizione della tassa sul sale. La von Meysen- burg, nei suoi ricordi su Mazzini col quale ebbe a discute re spesso di questioni sociali (è lei che lo dice) parla dei “socialismo pratico” che Mazzini aveva cercato d’instaurare a Roma. E si riferisce evidentemente alla legi slazione e agli altri provvedimenti con cui la Repubblica, per iniziativa e vo- lontà di Mazzini, si preoccupava di modificare migliorandola la situazione economica delle classi più numerose e più povere.
Lo Stato, nella concezione di Mazzini, è infatti la Nazione stessa democraticamen te organizzata. Il suo compito sociale è di portare i cittadini ad uno stesso livello, quindi di elevare quelli che sono in basso in modo che tutti siano resi ugualmen te liberi e responsabili nell’esercizio dei loro diritti co- me dei loro doveri. L’azione dello Stato non può essere repressiva o restrittiva, ma liberatrice. Se c’è una fun zione sociale dello Stato è in tal senso; come ce n’è una morale, educativa, spiri tuale. Allo stesso modo che c’è una missibne di ogni nazione nel mondo, nella unità e nella eguaglianza di tutte le patrie. Lo Stato deve agire e facilitare la strada all’ascesa delle classi che lavorano, non im- porla. I poteri e i doveri dell’operaio quale cittadino non dovrebbero trovarsi in alcun modo meno-
mati per una parti colare posizione d’inferiorità, di subordinazione o di soggezione. E il progresso economico non deve in nessun caso ottenersi col sacrificio della libertà politica o della dignità uma- na. La legislazione del lavoro stessa non deve in nessun caso risol versi in una menomazione dei di- ritti dell’operaio.
A questo riguardo Mazzini ha parole assai vivaci per quanto si era verificato in Francia, nel ‘49 e ‘50, con Luigi Filippo. Panem et circenses, dice, no! Nel presen tarsi poi, l’azione dello Stato volta a dirimere le disuguaglianze sociali Mazzini si spinge molto innanzi. Non solo fa sua la formula: “Lo Stato deve l’esistenza e il lavoro per essa a ciascuno. dei suoi membri”, come in altra occasione aveva detto:
“Pane e lavoro per tutti, ozio e fame per nessuno”. Arriva a concepire e a propu gnare la costituzio- ne, attraverso una “imposta della democrazia”, di un Fondo Nazionale del Lavoro destinato ad aiu- tare il sorgere e lo svilupparsi di organizza zioni volontarie, operaie naturalmente, manifatturiere, agricole, artigiane. Una idea questa che, nel modo e per gli scopi a cui Mazzini la voleva destinata, può consi >derarsi veramente rivoluzionaria e che ancora, nonostante gli sviluppi raggiunti dalla politica socia- le, deve trovare proposte e tentativi di applicazione.
Quello che è comunque caratteristico della politica economica e sociale dello Stato quale, la pensa- va Mazzini è che essa non è volta a rafforzare il potere politi co (come sempre è avvenuto e si è vo- luto) e tanto meno a dar vita ad un sistema protezionistico nazionale. A torto qualcuno ha pensato di riavvicinare il pensiero mazzinano, per ciò che si riferisce alla concezione delle funzioni economi- che dello Stato, a quella scuola economica tedesca che ebbe a fondatore in Germania Federico List e che tanto ha contribuito alla degenerazione nazionalista ed impe rialistica di quel paese. Nel pen- siero di Mazzini il fine economico e sociale dello Stato è quello di allargare il campo delle libertà, di tutte le libertà. Scrive a Kossuth nel 1851: “vogliamo uno Stato nel quale ad ogni uomo sia aperta la via per lo svi luppo ordinato delle sue facoltà morali e fisiche, aperta la via perché tutte le sor genti di educazione e di ricchezza gli siano, secondo le opere sue, accessibili, aper ta la via a sicuro e perenne lavoro, liberamente scelto a misura dei suoi godimen ti”, TI compito dello Stato cioè non è quello di elevare barriere o di stabilire limiti alle attività del cittadino; è quella di eliminare i vin- coli, di spezzare i monopoli, di distruggere i privilegi, di lasciare libero campo alla iniziativa, alla capacità, alla diversità di attitudini e di scelta nella produzione e negli scambi.
Una concezione del tutto diversa da quella ora prevalente del dirigismo di Stato, secondo la quale si vorrebbe assegnare allo Stato proprio quella funzione esecuti va, determinatrice e regolatrice degli atti economici che Mazzini invece gli voleva negata. Limiti, barriere, dazi erano da rifiutarsi ai con- fini come all’interno degli Stati. Mazzini voleva la diversità delle patrie insieme alla unità delle pa- trie. Egli è perciò aperto fautore della libertà di commercio e di scambio. “Un peuple ne peut vivre dans l’isolernent”, scrive nel ‘36. E aggiunge “nous croyons q’une plus grande unité est dans l’intérét de notre commerce, de notre industrie, rnenacée de toutes parts, de nos comnuinications en- travées a l’interieur et à l’estericur”. Si riferisce con queste parole alla situazione d’Italia. Ed è piena di efficacia, e di evidenza riguar do al modo come considerava il problema doganale, la descrizione che egli faceva nel ‘45 della situazione allora esistente dovuta alle varie dominazioni che divide va- no territorialmente l’Italia: “Otto linee doganali, senza numerare gl’impedimenti che spettano alla triste amministrazione interna di ogni Stato, dividono i nostri inte ressi materiali, inceppano il no- stro progresso, ci vietano ogni incremento di mani fattura, ogni vasta attività commerciale. Proibi- zioni o enormi diritti colpiscono l’im portazione e l’esportazione. Prodotti territoriali o industriali abbondano in una pro vincia d’italia o difettano in un’altra, senza che si possa, per noi ristabilire l’equili brio, vendere o permutare il superfluo”. Sulla politica doganale Mazzini è ritorna to molto spesso, nelle più diverse occasioni, perché possano cadere dubbi sul suo modo di pensare in una materia che ha formato sempre oggetto di vivaci e forti contrasti tanto su essa si impemiano due concezioni anche dottrinalmente oppo ste. Ai fautori di protezioni doganali osserva (1839): “La Svizzera fa a meno di proi bizioni e di restrizioni. La Russia ne fa senza. La Francia non ne aveva nel XPV e  >XV secolo e prosperò. In Francia le grandi manifatture degli scialli, il commercio della carta da pa- rati, dì ebanisteria, quello della moda e degli articoli di galanterie, degli strumenti ottici, bronzi e porcellane ne fanno a meno e sono fiorenti. Il com mercio della lana fiori in Francia mercé il libero scambio con la Spagna, ma declinò dal momento che fu applicato un dazio protettore). Sulla inter- dipendenza delle produzioni e degli scambi economici tra nazione e nazione, rivolgendosi agli ope- rai nel ‘60, avverte: “Voi vivete di scambi, d’importazione e di esportazione. Una nazione straniera che s’impoverisca, nella quale diminuisca la cifra dei consuma tori, è un mercato di meno per voi. Un commercio straniero che, in conseguenza di cattivi ordinamenti (donde la necessità secondo lui di buoni ordinamenti, che è interesse europeo) soggiaccia a crisi o a rovina, produce crisi e rovina nel vostro. I fallimenti d’inghilterra e d’America trascinano fallimenti italiani. Il credito è in oggi istituzione non nazionale, ma europea”. Non si può dire. dopo ciò - e mi si per donerà l’abbondante citazione dal momento che ha un valore probativo - che Mazzini non avesse idee chiare su uno dei problemi fondamentali della vita eco nomica che anche oggi si presenta di viva e immediata attuali- tà. I progetti in corso per ricostituire l’economia delle nazioni su piani di solidarietà e di collabora- zione. non hanno purtroppo saputo fino a questo momento eliminare le cause della con troversia e non è affatto detto che quei Piani non si trovino già compromessi in par tenza per i sistemi doganali e che i particolarismi economici che ciascuna nazione si ostina a mantenere e a sviluppare in casa sua non minaccino di demolire da un lato quanto dall’altro ci si mostra infervorati a costruire.
Il pensiero di Mazzini sul problema economico in generale e alla funzione che di fronte ad esso spetta allo Stato trova poi particolare rilievo e conferma nel suo modo di voler soddisfatte le aspira- zioni sociali dei moto operaio. E’ a questo riguar do che egli si pone su un terreno diverso, anzi in netto contrasto, con le varie scuo le di socialismo le quali tutte, o attraverso. l’ideazione di compli- cati e artificiosi sistemi o per una conquista violenta del potere resa possibile coll’inasprirnento del- la divisione e della lotta di classe, pensano di poter determinare dall’alto le nuove basì della società. Vede e denuncia il fondamento autoritario di quelle dot trine e ne teme gl’inevitabili sviluppi. E le combatte ugualmente tutte per questo. Non crede alle improvvisazioni. “Penso, dice, che il proble- ma nostro è meno quel lo di definire le forme del progresso futuro che non quello di collocare l’individuo in condizioni siffatte che gli rendano agevole l’intenderlo e il compierlo”.
La sua originalità sta appunto in questo, nel non aver pensato, anzi nell’essersi rifiutato di offrire un sistema in un’epoca in cui di sistemi se ne iriventavano tanti e ci si rifiutava di ammettere che po- tesse arrivarsi al socialismo senza un sistema prestabilito. La stessa critica marxista, che poneva il problema del proletariato in termini di lotta di classe portata all’estremo, doveva infatti nella inter- pretazione di coloro che se ne affermavano seguaci, concludersi in un sistema, il collettivismo, di società disciplinata e governata dall’alto e in cui tutta la proprietà sarebbe passata allo Stato. A tale sistema di cui prevede le conseguenze e i difetti - con preciso intuito economico, anche quando i bi- sogni economici fossero per sortirne meglio  >soddisfatti, Mazzini non pensa si possa arrivare. In esso, osserva, “la vita fisica può essere soddi- sfatta; la vita morale, la vita intellettuale sono cancellate, e con esse, l’e mulazione, la libera scelta del lavoro, la libera associazione, gli stimoli a produrre, le gioie della proprietà, le cagioni tutte che adducono a progredire. La famiglia umana è in quel sistema un armento al quale basta essere con- dotto a una suffi ciente pastura” (1860). In questo senso “chiude la via al progresso e impietra, per cosi dire, la società”.
Mazzini intuì quello che tutti i teorici del socialismo, Marx stesso, non hanno mai compreso e si ri- fiutano (come nel sistema di Lenin) di comprendere: che il pro blema sociale è pure un problema di libertà e che agli effetti economici non potrà esistere vera libertà senza strutture politiche che la esprimano, la realizzino e la garantiscano, per una recisione di vincoli dall’alto e per una progressi- va ascesa dal basso.
Come, su quali basi, con quali mezzi, attraverso quale sviluppo di capacità e di volontà, con quali forme di solidarietà, questo era il problema. Il presupposto ne era intanto l’organizzazione dei lavo- ratori.
Nessuno ha parlato agli operai con tanto appassionato fervore come Mazzini. Li chiama a unirsi, a darsi un programma e a non combattere se non per quello. Nell’associazione degli uomini del lavo- ro, nel suo progressivo sviluppo, vede il fui- ero della società futura, la quale non poteva sorgere che cosi. Non già per l’im provvisazione di un giorno, o come risultato di un colpo di forza, bensì per lo sfor zo di elevazione, metodico, consapevole, continuato del proletariato nelle sue asso cia- zioni libere, volontarie, facilitate aiutate sorrette nel loro cammino anziché osta colate e combattute. Ecco, secondo lui, la funzione sociale della Repubblica.
E’ significativo - ed è indicativo del suo orientamento oltre che della sua fede nel moto operaio - il fatto che dopo il ‘59, quando il problema dell’unità nazionale era vicino a risolversi, Mazzini abbia decisamente puntato sulle classi lavoratrici per le sorti stesse della libertà italiana. Da allora la sua attività si volge principalmente, e più tardi quasi esclusivamente, a promuovere l’organizzazione degli operai a diffondere fra essi le sue idee, a farle penetrare tra le associazioni apolitiche già esi stenti. L’Italia ha visto, per merito suo, moltiplicarsi il numero delle associazioni operaie: si forma un movimento organizzativo colle Fratellanze artigiane i congres si delle quali saranno, durante un ventennio, la sola manifestazione visibile dell’at tività mazziniana. Il movimento s’imposta su fina- lità politiche e sociali ben precise di cui le principali sono la indissolubilità della questione sociale da quella politi ca (cioè democrazia sociale e politica) e l’associazione come principio base di ogni trasformazione sociale. L’associazione intesa cioè come mezzo e come fine (società economica in formazione) e la trasformazione sociale come risultato di uno sfor zo di elevazione consapevole e progressiva dei lavoratori stessi associati per questo. Nella formula “libertà e associazione” Mazzini vede il principio costruttivo di una nuova società liberamente organizzata ed economicamente pro- duttiva. Tale società, come egli la vagheggia, si presenta costituita da una vasta e fitta rete di asso- ciazio ni dì produttori ugualmente liberi, padroni degli strumenti della produzione e dei  >frutti del loro lavoro. L’abolizione del salariato, l’unione dei capitale e del lavoro nelle stesse mani è quanto con essa verrebbe a realizzarsi ed è il fine che gli ope rai debbono proporsi e riuscire a raggiungere. Lo Stato deve aiutare, facilitare il rag giungimento di quel fine. “Vidi che a voi biso- gnava sottrarsi al giogo del salario, e fare a poco a poco, con la libera associazione padrone il lavoro del suolo e dei capitali d’italia”. E chiaro. Non dunque associazione del capitale da una parte e del lavoro dall’altra, come qualcuno ha, alle volte, creduto d’intendere. “Il diritto ai frut ti del lavoro è lo scopo dell’avvenire” - scrive allo spagnolo Garrido nel ‘62 - E spie ga: “La riunione del capitale e dell’attività produttiva sarà un vantaggio immenso, non solo per gli operai ma per l’intera società perché aumenterà la solidarietà, la produzione ed il consumo”. Più tardi, rivolgendosi agli operai, Mazzini dirà:
“L’emancipazione degli operai è una rivoluzione che si compierà, in nome del principio di associa- zione, nell’epoca nostra. Esso darà, compiendosi, un nuovo ele mento di vita al progresso morale delle affiacchite generazioni, un nuovo pegno di forza al nostro sviluppo politico, un nuovo impulso alla produzione”. Il carattere dell’economia nuova che egli auspica e della quale vuole contribuire a gettare le basi - a parte il lato sociale che ha pure la sua straordinaria anzi decisiva impor tanza - è appunto in questo maggiore impulso che la produzione ne avrebbe ritrat to: Mazzini si rende cioè conto, altrettanto esattamente di un economista della scuola più ortodossa, che l’abbondanza dei prodotti da ripartire è decisiva per la loro ripartizione sia “il lavoro ordinato ad uniformità di decre- ti” non contribuisce alla maggiore produzione, ma “perde ogni stimolo di emulazione e di progresso, d’interesse legittimo”.
Nelle parole “libertà e associazione” è il principio informatore dell’idea sociale di Mazzini, la for- mula base della nuova economia come egli la vagheggia. Egli stesso spiega perché vi faccia così in- sistente richiamo. “L’epoca dovendo somministrare un grado di sviluppo maggiore all’associazione civile, è necessaria l’esistenza e l’ammissione di un principio nella cui fede gli uomini possano ri-
conoscersi affra tellarsi, associarsi — che questo principio dovendo porsi a base della riforma socia le deve essere necessariamente ridotto ad assiorna: e, dimostrato una volta, sottrar si all’incertezza e all’esame individuale che potrebbe, ricavandoli in dubbio ad ogni ora, distruggere ogni stabilità di riforme: - che a rimanere inconcusso, è d’uopo rive- sta aspetto di verità di un ordine superiore, in- distruttibile..”. Quanto al valore che alla formula “libertà e associazione cosi ridotta, ad assiorna, può attribuirsi esso è certamente grande. Non è una formula negativa. E’ invece costruttiva. Si può accet tare o rifiutare, Ma quando fosse accettata e applicata come principio di vita segne rebbe un cammino sul quale si troverebbero anche le soluzioni, tutte le soluzioni. Il mondo non ha cammina- to secondo le idee e verso le soluzioni pensate da Mazzini. Un esperimento di socialismo di Stato, anzi di capitalismo di Stato, è pra ticamente in atto in una parte assai larga del mondo, con il nau- fragio di ogni prin cipio di libertà, con la soppressione di ogni forma di autonomia, d’indipendenza individuale così politica come sociale. Nulla autorizza ancora a concludere che con esso si realizzi almeno un più largo ed effettivo benessere: se si realizzasse ciò  >avrebbe riferimento allo stomaco mentre il problema sociale non può ridursi ad un problema di cu- cina. Sono queste, espressioni di Mazzini. Anche così considerato il problema, non si tratterebbe di una cucina molto variata. Mazzini aveva preveduto, come si è detto, a quali risultati avrebbe con- dotto 1 sviluppo delle dottrine socia liste del suo tempo e come si sarebbe con esse arrivati ad una nuova schiavitù, forse più assoluta ed esclusiva dell’antica. Se si pone fin dal principio in netta op- posi zione con quelle dottrine, è non già nel fine, e lo dice, ma sul metodo, sulla via da seguire, sul mezzi e sui modi. La sua concezione della società economica - fonda ta sul principio dell’associazione e governata dalla libertà - è infatti una concezio ne democratica, anzi la sola de- mocratica possibile. Economicamente è tutt’altro che imprecisa — risponde, oltre che ad una ten- denza naturale e sviluppatasi nono stante tutto, alle molteplici esigenze di una società produttiva e che voglia esserlo progressivamente. Che la proprietà si diffonda, si generalizzi e ogni cittadino ac- qui sti il diritto di possederla, non costituisce una soluzione meno avanzata dell’altra che vuole che tutti ne siano spogliati perché venga assegnata allo Stato. La orga nizzazione della vita economica in innumerevoli società di produttori e di consu matori non offre d’altra parte maggiori difficoltà di attuazione di quella che si pensa di organizzare e di governare burocraticamente dall’alto. Ed è la sola forma di organizzazione che può salvare il mondo dal despotismo.
Oliviero Zuccarini. giornalista, politico, (Cuprarnontana, Ancona 1883 — Roma 1971) formatosi alla scuola di Arcangelo Ghisleri con il quale costituirà un sodalizio politico durato fino alla scmn- pacSa del maestro, valorizzerà la sua o ililanza repubblicana per non averla limitata alla sola que- stione istituzionale, ma per averla caratterizzata ad un forte i,npegmlo sociale con una partecipa zione attiva e costante alle lotte di emancipazione dei lavoratoriC ritico del socialismo rifbrmista che attribuiva allo Stato laflmnzione preponderante nel costituire un assetto sociale del paese cen tralista e statalista, si adoperò per realizzare un m’ero federalismno repubblicano bascito sulla efjiztliva responsabilità e autonomia legislativa delle Regioni.Eletto alla Assensblea Costituente prosegue la sua battaglia contro uno Stato accentratore all’interno della Sottocommnissione delle autonomie locali costituita presso l’apposito Ministero della Costi- tuente preposto alla stesura della nostra Costituzione.Importante fu il suo contributo, con altri densocratici Calamandrei, Parri, Bauer ecc, ad affossare il mneccanisnmo elettorale della legge “truffò” che attribuiva premi di maggioranza ai vincitori, que- sta opzione lo allontanò dal PR. mmcl quale ritornò più tamsli in posizione di minoranza critica.Innumerevoli sono i suoi intem-eenti e articoli sparsi su giornali e riviste, un’opera di raccolta e ca- talogazione è in corso presso l’ar cltivio della “Domus Mazziniana” di Pisa dove sono depositate le sue carte.
UN’IDEOLOGIA NUOVA
La fine dei Socialismo reale nell’Oriente europeo, l’involuzione di tutta la Civiltà occidentale, vit- tima dei mito economicistico, involuzione iniziata con la presiden za di Ronald Reagan negli Stati Uniti, con il governo della signora Thatcher nel Regno Unito e con il Pentapartito in Italia, dovreb- bero imporre un ripensamento ideologico da parte di tutte le componenti della nostra cultura politica. Mi sembra si faccia evidente infatti come i problemi che la nuova epoca pone all’Umanità, il pro- blema sociale come quello della sovrappopolazione, il problema ecologico e quello dello sviluppo civile per la maggioranza della popolazione mondiale, da una parte non possono essere lasciati al cosiddetto libero sviluppo economico, dall’altra non si possono più inquadrare non dico nelle ideo- logie tra dizionali, ma nel modo in cui esse sono state considerate e vissute fino ad ora. Tutte infatti si sono rivelate o si stanno rivelando impari a raggiungere gli scopi per cui sono state concepite. E tuttavia è, più che errato, mistificatorio considerare decaduta ogni forma di ideologia, come sta fa- cendo la cultura del neo liberismo attuale.
Il Liberalismo, specie se lo consideriamo nel suo aspetto di liberismo puro e sem plice, se ha potuto assicurare una crescita della produzione e un marcato sviluppo industriale, sta determinando una progressiva divaricazione fra reddito e tenore di vita dei Paesi industrializzati e quelli dei Paesi sot- tosviluppati; rende inoltre sem pre più drammatico il sistema degli equilibri ecologici presenti e fu- turi, perché gli imprenditori privati, all’arbitrio dei quali è lasciata la produzione, non tollerano la minima disciplina per la loro attività, quale che sia l’esigenza per cui tale discipli na dovesse essere
imposta. L’infelice esito delle conferenze internazionali indette in proposito (Seattle, Tokio, etc.) sta a dimostrare l’impossibilità di arrivare ad un rego lamento del settore con i mezzi attualmente con- cepibili, l’impossibilità di ottenere un dimensionamento delle attività economiche private per salva- guardare la Società in cui i nostri figli e nipoti si troveranno a vivere. Occorre giungere ad un diver- so rapporto fra soggetti economici e pubblici poteri; tuttavia, prima, occorre un diver so modo dì pensare.
La crisi della Sinistra è forse più profonda. La dissoluzione del l’Unione Sovietica non ha significa- to solamente il cadere di un punto di riferimento internazionale, ma anche la fine di una certezza ideologica. Forse occorreva - e magari occorre rebbe - considerare i settant’anni del potere comuni- sta come un grande esperi mento storico, destinato a rinnovarsi perfezionato, senza gli errori che ne hanno determinato la crisi, ma questo urterebbe contro la concezione materialista che preferisce guardare alla continuità del potere e delle strutture sociali. Il Socialismo infatti verrebbe così visto come un’idea, un principio, non come uii qualcosa di concreto, fisicamente concreto.
Si aggiunga che gli Stati industrializzati hanno consentito un certo benessere dif fuso anche fra i la- voratori, grazie alle loro lotte, da qui la maggior facilità di acce 20
dere anche all’imprenditoria e alla disponibilità di capitali, il che ha reso più impreciso, per non dire evanescente, il concetto stesso della classe sociale. Forzando un poco il ragionamento, potremmo dire che quasi non esiste più la classe operaia, cioè quello strumento che poteva persegure con faci- lità •fini di miglioramento collettivo, da raggiungersi attraverso una potente solidarietà, più facile da realizzarsi nell’apparato industriale.
Tutto questo ha creato o contribuito a creare incertezza, nell’azione politica delle sinistre, progres- siva incapacità di fare riferimento alla propria ideologia, ai presup posti che ne hanno determinato il cammino storico. Forse è per questo che l’e sperienza di governo della Sinistra ha costituito per molti una delusione. La Sinistra ritrova se stessa oggi solo quando deve difendere salari e pensioni, tuttavia questa funzione, pur essendo di grande, innegabile importanza, non può esaurire le aspira- zioni di chi vorrebbe rinnovare costantemente la Società.
Il problema sociale deve trasferirsi dal campo nazionale a quello internazionale, affinché si possa indicare la via per la crescita culturale e politica dei popoli in via di sviluppo, ma il benessere pur parziale acquisito dai lavoratori occidentali, benes sere che potrebbe venir ridimensionato qualora si affrontassero decisamente e con efficacia i giganteschi problemi delle aree povere, contribuisce a che anche il mondo operaio non sia del tutto estraneo all’inerzia della nostra Società, tesa a conser- vare i propri equilibri di riferimento internazionale, ma anche la fine di una certezza ideologica. Forse occorreva - e magari occorrerebbe - considerare i set tant’anni del potere comunista come un grande esperimento storico, destinato a rinnovarsi perfezionato, senza gli errori che ne hanno de- terminato la crisi, ma que sto urterebbe contro la concezione materialista che preferisce guardare al- la conti nuità del potere e delle strutture sociali. Il Socialismo infatti verrebbe così visto come un’idea, un principio, non come un qualcosa di concreto, fisicamente con creto. Si aggiunga che gli Stati industrializzati hanno consentito un certo benesse re diffuso anche fra i lavoratori, grazie alle loro lotte, da qui la maggior facilità di accedere anche all’imprenditoria e alla disponibilità di capi- tali, il che ha reso più impreciso, per non dire evanescente, il concetto stesso della classe sociale. Forzando un poco il ragionamento, potremmo dire che quasi non esiste più la classe operaia, cioè quello strumento che poteva perseguire con facilità fini di miglioramento collettivo, da raggiungersi attraverso una potente solidarietà, più facile da realizzarsi nell’apparato industriale.
Tutto questo ha creato o contribuito a creare incertezza, nell’azione politica delle sinistre, progres- siva incapacità di fare riferimento alla propria ideologia, ai presup posti che ne hanno determinato il cammino storico. Forse è per questo che l’e sperienza di governo della Sinistra ha costituito per molti una delusione. La Sinistra ritrova se stessa oggi solo quando deve difendere salari e pensioni, tuttavia questa funzione. pur essendo di grande, innegabile importanza, non può esaurire le aspira- zioni di chi vorrebbe rinnovare costantemente la Società.
Il problema sociale deve trasferirsi dal campo nazionale a quello internazionale, affinché si possa indicare la via per la crescita culturale e politica dei popoli in via  >di sviluppo, ma il benessere pur parziale acquisito dai lavoratori occidentali, benes sere che potreb- be venir ridimensionato qualora si affrontassero decisamente e con efficacia i giganteschi problemi delle aree povere, contribuisce a che anche il mondo operaio non sia del tutto estraneo all’inerzia della nostra Società, tesa a conservare i propri equilibri e il proprio livello di vita. La solidarietà verso i popo li del Terzo mondo si ritrova allora quando le vicende di questo si affacciano alla ribal- ta della politica internazionale, con un atteggiamento per cui si è indotti a dar gli sempre e comun- que ragione, ma questo di rado contribuisce all’effettiva cresci ta dei popoli in via di sviluppo, anzi, talvolta determina un acuirsi delle loro trage die. Sì ricordino, ad esempio, i casi del conflitto ebrai- co - palestinese e la stessa guerra del Golfo del 1991.
Forse occorrerebbe ricordare che la classe sociale non è solamente un gruppo socialmente contrad- distinto, ma, prima, all’origine, corrisponde ad una mentalità ad una concezione di vita. La classe borghese è originata dalla tendenza alla meri tocrazia e dall’acquisizione dei profitto, senza sostan- ziali limiti, come inevitabile corrispettivo di un’attività svolta. Anche qui, tuttavia, usciamo dalla dottrina mate rialistica ed entriamo nell’ambito delle idee. E’ in quest’ambito tuttavia che occor re cercare una soluzione alla crisi che stiamo vivendo; dobbiamo cercare nuove regole per la vita asso- ciata.
Anche il mondo cattolico è oggi in crisi, anche se il travaglio è mascherato dal trionfalismo della politica vaticana, sotto il Pontificato di Giovanni Paolo 11. Malgrado le enunciazioni papali che continuano a condannare consumismo ed edonismo, i Cattolici, specialmente quelli italiani, si sen- tono attratti dalle organiz zazioni politiche più conservatrici, sono portati ad identificarsi con i prin- cipi basi lari della Società liberale, come la consacrata ricerca dell’utile individuale; quindi accetta- no una struttura sociale che non solo non rinnega, ma ritiene addirittura giuste le differenze sociali, corrispondenti alla diversità di capacità degli individui e delle loro categorie. Concorre a questa so- stanziale accettazione l’atteggiamento che Chiesa e Cattolici hanno verso lo Stato e in genere l’Ente pubblico, rifiutando di riconoscergli non solo una funzione educativa ma anche quella di promuove- re l’evoluzione morale dei popoli; compiti, questi, che si vogliono assegnare solo alla famiglia ed alla Chiesa.
Orbene, questo sostanziale adeguamento alla conservazione, ribadito dal Vaticano con una puntuale condanna per ogni regime politico che si proponga scopi di tra sformazione sociale, crea una con- traddizione fra quella che dovrebbe essere la spi ritualità cristiana e la visione politica del cristiano. La contraddizione è oggi tanto più dolorosamente significativa, in quanto sono stati praticamente accantonati sia lo spirito innovatore e veramente ecumenico di Giovanni XXIII e Paolo VI, sia la caratteristica storica della Democrazia Cristiana, la quale, fino al 1980 è riuscita a gestire corretta- mente il reinserimento del mondo cattolico nella vita pubblica ita liana, facendogli sempre compiere nei momenti cruciali scelte innovatrici, cioè di progressiva apertura alle altre componenti politiche con le quali si era trovato a collaborare nella Resistenza.
Crisi quindi anche nell’area cattolica e incapacità di scorgere, prima ancora che di percorrere, un autentico cammino evolutivo.
Questa crisi generalizzata può essere ricondotta ad un comune denominatore ad un comune difetto basilare: la costante prevalenza della pratica, degli obiettivi immediati, delle pulsioni momentanee, in una parola: del fatto, sui traguardi lon tani, sui grandi disegni a carattere storico, tali da poter uni- ficare le esigenze più disparate, i diritti delle future generazioni, le aspettative di tutti i popoli. In un’al tra parola: la prevalenza del fatto sulle idee. Tale crisi può essere allora affrontata con una re- visione da parte di tutte le forze politiche dei propri patrimoni ideolo gici, non certamente perché si giunga a negazioni dei singoli percorsi storici e ad abiure, in quanto si crede fermamente che tutte le componenti della cultura poli tica moderna abbiano adempiuto ad una precisa funzione; ma perché i problemi che il nuovo millennio ci pone vanno affrontati con strumenti adatti e con mag gior senso di solidarietà.
Una dottrina come quella mazziniana, ancorché praticamente disattesa fino ad oggi dai suoi stessi seguaci, i quali hanno preferito rifugiarsi in visioni sociali sostanzialmente elitarie, tali da confon- dersi troppo spesso con i margini dell’area liberale tradizionale, potrebbe far nascere nuovi punti di riferimento, nuove moti vazioni di crescita sociale, se collegata con altre visioni politiche innovatri- ci. Si dovrebbe comprendere finalmente come non basti affermare “La vera Sinistra siamo noi!” e mettersi così l’animo in pace, salvo poi lo scegliere sistematicamen te compagni di viaggio che vanno in tutt’altra direzione, salvo il privilegiare il lato economico contingente della vita sociale, il che si traduce puntualmente, inevita bilmente, in scelte conservatrici. Se si vuole un’evoluzione po- litica, occorre accom pagnarsi alle forze che, sia pure su basi diverse, vogliono anch’esse un’evoluzione. I Marxisti, dal canto loro, dovrebbero sforzarsi di superare un materialismo che im- pedisce loro di valorizzare la propria stessa Storia, come abbiamo già visto. Le grandi trasformazio- ni sociali dipendono sostanzialmente da nuovi e più elevati modi di pensare e i rivolgimenti che portano al potere o privilegiano un gruppo, una categoria, una classe, intanto possono essere fecondi per l’avvenire in quanto si abbia coscienza che costituiscono un primo passo, l’awerarsi di una con- dizione iniziale, perché poi si intraprenda un cammino il cui proseguirnento e compi mento siano affidati all’educazione, cioè al graduale prevalere di idee nuove, più adatte ai tempi, più in grado di realizzare quell’ordine diverso auspicato da chi il rivolgimento ha voluto.
La Rivoluzione Francese se, come risultato pratico ha portato al prevalere della classe borghese, come fondamentale motivo di progresso storico ha determinato l’affermazione, direi l’indiscutibilità dei tre principi di Libertà, Uguaglianza, Fraternità, Prima della Rivoluzione qualsiasi ministro avrebbe risposto che l’ugua glianza era un principio iniquo, che la nobiltà non poteva essere posta sullo stes so piano del Terzo Stato o, a maggior ragione, di quello che Marat chiamerà il Quarto Stato.
Dopo la Rivoluzione ci sono state - e ci sono tuttora - forti o addirittura forsennate resistenze in te- ma di uguaglianza di fatto, del suo progressivo realizzarsi, ma nes suno ha più potuto contestare il principio fondamentale. Il che è la condizione prima per una sia pure lunga evoluzione.
Le stesse Rivoluzioni socialiste hanno rivelato il loro limite, che, a ben vedere, ne ha determinato la crisi, perché nel passaggio fra la fase socialista e quella comuni sta successive a quella rivoluziona- ria, fasi previste da Marx, il discorso non poteva più riguardare la prevalenza di una classe produtti- va su un’altra, in quanto vittima, questa, delle proprie contraddizioni. bensì un profondo mutamento culturale ose rei dire spirituale, per cui alla gravitazione dell’uomo verso l’utile individuale si sa- rebbe dovuta e si dovrebbe sostituire la coscienza del corretto rapporto fra indi viduo e Società, l’abbandono di ogni ricerca di ricchezza particolare, il discorso sui fini dell’Umanità. Tutto ciò è difficile per chi era partito credendo che l’uomo e la Società si muovono fondamentalmente se vi sono degli interessi.
La classe operaia che aveva vinto nella Rivoluzione ha dato così luogo ad una burocrazia sempre più priva di stimoli per procurare trasformazioni evolutive.
Oggi è un nuovo modo di pensare che occorre, il che ci riporta al primato mazzi niano per le Idee. Comunque la collaborazione fra varie culture si impone e dovrebbe fare leva anche sulla rivaluta- zione della nostra e dell’altrui Storia. Lo svi luppo de! cosiddetto Revisionismo storico sta dimo- strando come il guardare ad un passato reazionario non possa fermarsi alla demonizzazione del Comunismo, coin volge necessariamente tutta la nostra Storia fino alla Rivoluzione francese ed ol- tre, fino alla ricerca di un modello di società aristocratica. In realtà Risorgimenti nazio nali e Rivo- luzioni sociali del XX secolo sono inesorabilmente collegati da vincoli logici. Ognuno di essi potrà soffrire di limiti o difetti anche gravi, ma tutti quei rivolgimenti hanno in comune una inquietudine di fondo per le sorti dell’uomo, la ricerca costante di una Società migliore, il che dovrebbe attrarre anche coloro che hanno una sincera fede religiosa. Le due Guerre mondiali, i patrimoni culturali di tutte le Nazioni che le vinsero, dimostrando così di avere ragione, possono costi tuire un insegna- mento prezioso.
E’ un cammino difficile quello che qui si propone; tuttavia, se vogliamo sperare di uscire dalla crisi attuale, che non è solo della Società italiana, ma di tutto l’occi dente, non credo vi sia altra strada. L’accettare il confronto su temi che riguardano tutta l’Umanità, il mettere in discussione tanti stru- menti ideologici magari utili nel passato, ma tali da dover essere mutati oggi, sarebbe già molto; sa- rebbe un primo passo verso un domani migliore. Costituirebbe inoltre non una negazione, ma una esaltazione degli impegni ideologici e civili che ci hanno guidati finora.
Amedeo Lombardi Nato a Brescia nel 1931, Amedeo Lombardi è stato in città una figura di spicco del Partito repubblicano e il suo impegno politico lo ha portato a diventare consigliere comunale in Loggia e a ricoprire la carica di assessore ai Servizi sociali nella giunta del sindaco Cesare Trebeschi. Dirigente dell’Associazione mazziniana italiana, aveva pubblicato nel 2007 il volume «Antiche cronache repubblicane» ricostruendo il percorso di una generazione uscita dalla dittatura fascista e fortemente impegnata a ricostruire la democrazia.

APPENDICE

L’opera omnia di Giuseppe Mazzini, raccolta a cura dello Stato Italiano, è costituita da 110 volumi. I due brani stampati in appendice sono quindi poca cosa e vengono presentati come stimolo ad approfondire, invitando il lettore a prendere contatto con l’Associazione Mazziniana Italiana (A.M.I.) di Brescia per la consultazione di eventuali testi.
LA FEDE DI GIUSEPPE MAZZINI
Il brano seguente è tratto dall’opuscolo Foi et Avenir, pubblicato in Svizzera dal Mazzini, nel 1835, cioè posteriormente al fallimento dei suoi primi tentativi rivoluzionari.
Noi cademmo come partito politico. Dobbiamo risorgere come partito religioso.
L’elemento religioso è universale, immortale: universalizza e collega. Ogni grande rivoluzione ne serba impronta, e lo rivela nella propria origine o nel fine che si propone. Per esso si fonda l’associazione. Iniziatori d’un nuovo mondo, noi dobbiamo fondare l’unità morale, il cattolicismo umanitario. E moviamo confortati dalla santa promessa di Gesù: cerchiamo il nuovo Evangelio del quale ei ci lasciò, poco prima di morire, la speranza immortale, e del quale l’Evangelio cristiano è il germe, come l’uomo è germe dell’Umanità. Sulla via fecondata da cinquanta generazioni di martiri, noi salutiamo con Lessing quell’immenso av venire, la cui leva avrà a punto d’appoggio la Patria, per fine l’Umanità, quando gh uomini stringeranno un Patto comune e definiranno fratelli la mis- sione di ciascuno nel futuro, l’ufficio che spetta a ciascuno nell’associazione generale go vernata da una legge per tutti, da un Dio per tutti. Spetta a noi d’affrettare il momento in cui la campana a Stormo dei popoli, la Rivoluzione, convocherà una Convenzione che sia un vero Concilio generale. La guerra nostra dev’esser quindi una santa crociata. Splenda Dio sulla nostra bandiera come sui nostri fati. Superiore a tutte rovine del vecchio mondo s’innalzi un terreno sul quale i popoli possa- no ardere l’incenso della riconciliazione. E possa almeno ciascun di noi sapere che cosa rispondere a chi volesse chiederci: d’onde movete? in nome di chi predicate?
Or noi possiamo rispondere:  >Veniamo in nome di Dio e dell’Umanità.
Noi crediamo in un Dio solo, autore di quanto esiste, Pensiero vivente, assoluto, del quale il nostro mondo è raggio e l’Universo una incarnazione.
Crediamo in un’unica Legge generale, immutabile, che costituisce il nostro modo d’esistere, ab- braccia ogni serie di fenomeni possibile, esercita continua un’azione sull’universo e su quanto vi si comprende, così nel suo aspetto fisico come nel morale.
Ogni legge esigendo un fine da raggiungersi, crediamo nello sviluppo pro gressivo, in ogni cosa esi- stente, delle facoltà e delle forze, che sono facoltà in moto, verso quel fine ignoto, senza il quale la legge sarebbe inutile e l’esistenza inintelligibile.
E dacché ogni legge ha interpretazione e verificazione nel proprio soggetto, noi crediamo nell’Umanità, ente collettivo e continuo, nel quale si compenclia l’intera serie ascendente delle creazioni organiche e si manifesta più che altrove il pensiero di Dio sulla terra, siccome unico inter- prete della Legge.
Crediamo che l’armonia tra il soggetto e la legge essendo condizione d’ogni esistenza normale, fine noto e immediato di tutti gli sforzi è lo stabilimento più sempre compiuto e sicuro di quell’armonia, mercé la scoperta della legge e l’in-miedesimarsi del soggetto in essa.
Crediamo nell’Associazione, che non è se non la credenza attiva in un solo Dio, in una sola Legge e in un solo Fine, come nel solo mezzo posseduto da noi per tradurre il Vero in realtà, come in un me- todo del Progresso, come nella sola via esistente di perfezionamento, così che al più alto grado pos- sibile di progresso umano debba corrispondere la più vasta formola possibile d’associazione, con- quistata e applicata.
Crediamo quindi nella Santa Alleanza dei Popoli, come quella che è la più vasta formola d’associazione possibile nell’Epoca nostra — nella libertà e nel l’eguaglianza dei popoli, senza le quali non ha vita associazione vera — nella nazionalità, ch’è la coscienza dei popoli e che asse- gnando ad essi la loro parte di lavoro nell’associazione, il loro ufficio nell’Umanità, costituisce la loro missione sulla terra, cioè la loro individualità, senza la quale non è possibile libertà, né egua- glianza — nella santa Patria, culla della nazionalità, altare e lavoreria per gli individui che compon- gono ciascun popolo.
E dacché la Legge è una, dacch’essa regola egualmente i due aspetti, interno ed esterno, della vita d’ogni ente, i due modi, proprio e di relazione, subbiettivo e obbiettivo, che spettano ad ogni esi- stenza, noi crediamo per ciascun popoio e per gli individui che lo compongono le stesse cose che noi crediamo per l’Uma nità e pei popoli che la compongono. Come noi crediamo nell’associazione dei popoli, crediamo nell’associazione tra gli individui che compongono ogni na zione e nel suo es- sere mezzo unico del loro progresso, principio destinato a pre dominare su tutte le loro istituzioni e pegno di concordia nelle opere. Come noi crediamo nella libertà e nell’eguaglianza dei popoli, così crediamo nella libertà e nell’eguaglianza tra gli uomini di ciascuna Patria e crediamo nella inviola- bilità dell’io ch’è la coscienza degli individui e assegna loro una parte di lavoro nell’associazione secondaria, un ufficio nella Nazione, una missione speciale di cittadini nella sfera della Patria. E come noi crediamo nell’Umanità, sola interprete della legge di Dio, così crediamo, per ogni Stato, nel Popolo, solo padrone, solo sovrano, solo interprete della Legge dell’Umanità regolatrice delle missioni Nazionali; nel Popolo uno e indivisibile, che non conosce caste o privilegi se non quelli del Genio e della Virtù, né proletariato nè aristocrazia di terre o finanza, ma solamente facoltà e forze attive consecrate per utile di tutti all’amministrazione del fondo comune ch’è il globo terrestre: — nel popolo libero e indipendente, con ordini che pongano in armonia le facoltà individuali e il pen- siero sociale, vivente del proprio lavoro e de’ suoi frutti, concorde nel procacciare la più grande uti- lità possibile comune e nondimeno nel rispetto ai diritti dell’io — nel popolo affratellato in una sola fede, in una sola tradizione, in un solo pensiero d’amore, e avviato al compimento successivo della propria missione, — al popolo progressivo, sacro a un apostolato di doveri, non dimen tico mai d’una verità conquistata, ma né tendente a diventare inerte per quella conquista, riverente alla parola delle generazioni, ma deliberato di giovarsi del presente come di ponte gittato fra il passato e il futu- ro, adoratore della rive lazione e non dei rivelatori, capace d’accostarsi gradatamente alla risoluzio- ne del problema de’ suoi fati qui sulla terra.
GIUSEPPE MAZZINI VEDUTO DA UN AVVERSARIO
Il gesuita Antonio Bresciani (1798-1862), da Ala di Trento, fu tra i più noti e virulenti avversari dei liberali italiani ed in particolare dei democratici, da lui dipinti come uomini rotti ad ogni scellera- tezza nel romanzo L’Ebreo da Verona. Tanto più significativo è pertanto questo ritratto del Mazzini, abbozzato dal padre Bresciani nel romanzo anzidetto, sulla scorta di ricordi di un proprio soggiorno a Genova, negli anni antecedenti al 1848. Esso costituisce una gustosa testimonianza dell’autentico terrore che il solo nome del Mazzini infondeva nei reazionari. Ma è altresì evidente che la nobiltà morale del Genovese finisce in qualche modo per imporsi persino sull’astio di un così irriducibile avversario.
Queste fucine di congiure, e di malefizi entro cui reputano che soffi gagliar damente il Mazzini, e minacci il soqquadro d’Italia, il resero tanto paventoso alle immaginazioni di molti, che il pur no- marlo dà loro un secreto ribrezzo come d’un mal genio, impastato di veleno e di morte, come d’un mostro di natura diversa e strana dalla nostra umana e comune.
S’ingannano stranamente a creder così; egli è come gli altri. Giuseppe Mazzini è uomo d’ingegno desto e vivace, d’animo risentito e bollente, di cuor saldo e robusto, di mente ostinata e immutabile ne’ suoi avvisi, d’alti sensi, e di spiriti grandi e intemperati. Difetti e pregi di natura che volti a belle e sante imprese, domati dalla virtù, retti dalla sapienza, e corroborati dalla reli gione poteano fare del Mazzini un uomo apostolico, un lume della Chiesa, un martello degli empi. Quest’uomo, che di- sconosce Gesù Cristo e la sua redenzione, il suo vangelo e la sua Chiesa, è nato di genitori cristiani, fu battezzato in Genova sua patria, professò la santa legge evangelica, si lavava umilmente ai lava- cri della confessione, si nutriva del divin corpo di Cristo. Egli nacque di onorevole famiglia cittadi- na, figliolo dell’egregio medico dottor Mazzini, profes sore dell’Università, ed uomo d’eletta virtù e dottrina; caro agli amici, amorevole cogli scolari, benevolo verso tutti, pregiato, e in voce d’uomo dell’antica fede, e di probità singolare, ch’io stimava e riveriva altamente, siccome grato che sempre me gli professai per avermi nell’Università di Genova curato nel 1828 di una grave infermità, e vo- lutomi in conto d’amico.
Giuseppe avea due sorelle; una di queste tocca da celeste lume di Cristo, detto vale al mondo, volò come colomba al dolce nido delle sue spose nel santo monistero delle Turchine.,, e dopo alcuni anni condotti nell’esercizio della mor tificazione, purificata e degna della corona, il Signore la chiamò a sé in Para diso nel primo flor della vita.
Un altra sorella ebbe il Mazzini, esile e mal reggentesi sulla persona, ma di bel cuore, di nobili spi- riti e d’acuto ingegno, ch’egli amava assai; e piaceasi grandemente di vederla sì tratta al bello della poesia, in ch’ei la intratteneva alcuna volta, leggendole i primi componimenti delle sue poetiche lu- cubrazioni. Anch’essa morì, e Giuseppe ne pianse l’immatura partita. Gli resta ancora l’An tonietta, ch’è a marito, e perduto da poco il padre, forma colla madre sua l’unico vincolo degli affetti dome- stici di Giuseppe. Quest’uomo, che fa raccapric ciare di sua spietatezza l’Italia, ama la madre affet- tuosissimamente, e uno dei più fieri e atroci dolori del suo esilio è l’esser lontano da lei. Io lessi una sua lettera; nella uale narra a una persona amica sua dell’infanzia, quanto viva e profonda dolcezza fosse al cuore di lui l’averla potuta vedere e abbracciare in Milano dopo tanti anni di durissimo di- stacco.
Or questo giovinetto educato a tanta cura nei domestici penetrali dai suoi genitori; avviato da un di- screto sacerdote sotto la santa disciplina della Chiesa cattolica; come mai è egli caduto in tanto abis- so di empietà? com’è egli traboc cato in tanta ferità di cuore, in tanto orrore di malefizi e congiure? Come s’è egli così trasnaturato da esser tenuto in conto d’un mal genio piovuto sulla terra per ispa- vento de’ buoni, per flagello della Chiesa, per attizzatore di ribel lioni, per iscotimento e conquasso d’ogni ordine umano e divino? Quest’uomo, che volto al bene poteva riuscire benefattore, sostegno e gloria d’Italia!
Giuseppe Mazzini è una grande scuola all’incauta gioventù di quanto possa la seduzione e il trasci- namento de’ malvagi compagni...
Pervertito ch’ei fu nell’Università mentre frequentava l’accademia di let teratura italiana sotto l’abate Bertora (che tanto lo diligeva e che poi tanto rainmaricossi dei suoi traviamenti), scagliossi anima e corpo nelle società se grete: e siccome giovane d’acuta mente, di cuor caldo, e d’indole au- dace e in domabile, si fece malauguratamente un pregio di durare saldo e pertinace in quelle, di promuoverle, di ampliarle, di renderle formidabili contra tutto ciò che si oppone ai loro divisansenti. E per ciò che i Monarchi e la Chiesa sono per le Sette un argine che ne rattiene il corso impetuoso e furente, così giusta le norme di Weishaupt [Fondatore degli Illuminati, famosa società segreta settecentesca di stampo massonico.] ai Monarchi e alla Chiesa ruppero una guerra ostina tis- sima e crudelissima oltre ogni umano pensare. Forse il Mazzini, quale capo di setta, sarà così atroce come, nello sbigottimento che desta il suo nome, credono molti, ma noi non crediamo ch’egli di sua mano ferisse unquemai a tradimento una vittima inerme; e forse delle tante uccisioni che daI ‘47 al ‘49 contamina rono di sangue le italiane città, egli non ne comandò di sua bocca una sola. Il Mazzi- ni però, senza entrare in queste individualità, bada e attende alle cospi razioni generali; le desta so- pite, le incarna concette, le ravvalora scorate, le guida e risolve dubbiose, le attizza semispente, le accalora attepidite, e dove già levino alta a risonante la fiamma, vi soffia dentro e le investe ed in- calza, come vento impetuoso e fremente, fra uno incendio che devasta e consuma le piante resinose
della foresta. Sotto questo rispetto il Mazzini dee rispondere per certo a Dio e agli uomini di tutti i mali e orrori sì universali e sì particolari  >che dalle sedizioni e rivolture s’agglomerano miserabilmente sopra le nazioni; e tutto questo egli non fa di soppiatto, non per istratagemme, e agguati, e simu lazioni, e ipocrisie, ma franco, in piazza, nelle scritture ch’egli spande per tutta Italia.
E dice e fa. Egli è servito, obbedito e temuto da’ suoi creati così puntual mente nelle più rischiate fazioni, che tanto non erano i tiranni del medio evo da’ br Fanti Perduti e dalle loro Lanze Spezzate, i quali si dedicavano alle vo lontà de’ loro Signori per la vita e per la morte. Laonde colti alcuni Mazziniani dalla vigilanza de’ governi, e sostenuti ne’ ferri, e talora giustiziati, sottentrarono all’impresa altri più temerari de’ primi: e ghermiti i secondi, si gittano baldan zosi i terzi: e così a mano a mano senza resta nè tregua mai. Attività e costanza da far vergognare i melensi, i quali grat- tandosi in capo e tralunando gli occhi, ficcano le mani incrociate sotto le ascelle, e van gridando per l’Italia come don nicciole — Sapete? corrono in pubblico e in privato scritture indiavolate del Maz- zini, e si mandano per la posta a guisa di lettere a chi non le vuole e a chi le vuole. Sapete? I Mazzi- niani sono in gran movimento: trascorrono di pro vincia in provincia, di Città in città, portano ordini, allestiscono nuove congiure, minaccian di far macelli e carneflcine. Poveretti noi! che sarà? Uh che scempio! Madonna mia, che ci tocca vedere? Non s’è egli sofferto abbastanza? si veggono in volta certi musi! certi barbonacci arruffati! Dio mio, ci •mangian vivi con gli occhi! —
Vi mangeran vivi co’ denti se non ci porrete altro argine che di parole. Costoro conoscono più il na- turale della buona gente che non certi baccalari, i quali van disputando sopra l’incremento del buon senso de’ popoli. Sì eh! Fate (che Dio ci scampi) che scoppi il furore di una rivolta, e poi vedrete se il buon senso de’ popoli italiani sorge a combatterla. — Baie. Chi fuggirebbe di qua, chi di là; chi si chiuderebbe in casa a dire le orazioni: chi per salvar la pelle griderebbe con essi: — Viva.,. Morte...
Da: A. Bansci L’Ebreo da Verona, Roma, 1860, lI, 103-109.

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